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Sguardo implorante

L’uomo ci guarda con occhi che sembrano chiedere pietà: sgranati, lucidi, quasi imploranti.
È seduto davanti a noi, ma il suo corpo esprime la tensione della fuga, di chi vorrebbe alzarsi e andarsene il più lontano possibile per non ascoltare le parole che gli arrivano.
Quello sguardo mi è rimasto addosso, e mi segue da un paio di giorni, immagine universale del chiedere pietà alla vita, del chiedere di essere risparmiati da un dolore che schiaccia e sembra sopraffarci.
A volte la vita è implacabile.
Quello sguardo non mi lascia perché racconta dell’essere disarmati, vulnerabili, spaventati. Condizione umana, molto umana.
Quello sguardo vorrebbe consolazione e rassicurazione, vorrebbe sentirsi dire che andrà tutto bene, ma così non sarà.
Il suo dolore e il suo disorientamento arrivano dritti a noi che siamo lì con lui, ambasciatori che portano pena.
Come ricorda Marie de Hennezel, una psicologa francese, non si esce mai indenni da certe incursioni nella sofferenza altrui. Ed è bene che sia così.
Si esce con un senso di rispetto per l’essere umano sofferente, e di profonda consapevolezza di vita. Si esce con i piedi ben piantati in terra e nel quotidiano che accoglie. Si esce sentendo sulla pelle che quel dolore riguarda anche noi.
Stasera, però, sono al riparo. Qui, ora, tra le mie cose, con mio marito due stanze più in là, sono al riparo. Il presente sorride: composto, complesso, grave e leggero. Tutto sta.